FAR(SI) SILENZIO

M. Clifford – Corsia in Garza con Intarsi

Colui che tace è salvo

MAOMETTO (SAW)

Ānanda Coomaraswami nel suo “Bellezza e verità – saggi sull’arte cristiana ed orientale” (ed. Luni) delinea i principi dell’arte tradizionale e le differenze rispetto la moderna concezione dell’opera d’arte e dell’artista. Tradizionalmente la figura dell’artista e dell’artigiano coincidevano e la funzione dell’artifex, dell’artefice, era quella di concretare nell’oggetto, a seconda della sua funzione od uso ed in accordo all’intelligenza di coloro che poi ne usufruiranno, principi di ordine cosmico, verità immutabili. L’oggetto è oggetto d’arte quando assolve sia alle necessità di ordine pratico di chi ne fruisce, che a quelle di ordine spirituale ed il “bello” coincide con il “Vero”. L’oggetto artistico ha sempre una valenza simbolica, perché esprime in un linguaggio “trasversale”, che si rivolge allo Spirito, verità di ordine ontologico e metafisico, educa cioè chi ne fruisce sui principi che reggono l’ordine cosmico. Tradizionalmente, ogni oggetto “creato” dall’uomo era artistico, perché rispettava questi principi. La funzione dell’artefice dell’opera d’arte era quella di attualizzare questi principi nel modo più fedele possibile, ricreandoli nell’opera secondo le sue capacità, che potremo chiamare “tecniche”. La personalità dell’artefice rimane anonima, occultata, perché è il Vero che deve risplendere ed il processo di creazione diviene rituale, nel senso che perpetua e ribadisce il legame esistente tra l’ordine divino e quello umano.

La concezione dell’opera artistica come espressione dell’estro, della personalità o delle idee dell’artista è moderna, così come è moderna l’idea di estetica. L’artista tradizionale è strumento e non lascia traccia di sé se non nella maestria con cui crea, mentre l’artista moderno si riconosce dall’opera, perché in essa egli esprime innanzitutto se stesso, la sua personalità. Laddove il bello nell’arte tradizionale concerne il Vero e per questo è oggettivo e va conosciuto (nel senso di gnôsis, jñāna), nella concezione moderna il bello è estetico, inteso nel suo significato etimologico, dal greco αἰσϑητικός, che concerne la sensazione, riguarda cioè la percezione sensoriale ed è dunque soggettivo. L’oggetto d’arte tradizionale è utilizzato, fa parte del mondo e della vita dell’uomo mentre l’oggetto d’arte moderno è esposto nei musei, è esiliato dalla vita quotidiana.

Nella prospettiva di Coomaraswami, dunque, la personalità dell’artista (per “personalità” si intende la struttura psico-emotiva e sensoriale con cui interagiamo nel mondo e ci identifichiamo) si contiene, tace per lasciare spazio al Vero, di cui si fa serva (servo: dal latino servus, che alcuni derivano dalla radice sero, annodo, connetto), mentre nell’arte contemporanea diviene padrona, occupa interamente lo spazio interiore dell’artefice che avverte l’urgenza di esprimerla in una qualche opera, in un generico “fare”.

Nell’uomo la personalità è lo strumento unico, potremo dire l’interfaccia particolare, con cui si relaziona al mondo e l’uomo tradizionale è educato alla continenza e considera un valore disciplinare la propria personalità, rendendola funzionale al ruolo che egli svolge all’interno del contesto sociale in cui vive; l’educazione stessa ha anche la funzione di insegnare al singolo a contenere la propria personalità per garantire sia l’equilibrio sociale, che l’integrità psicofisica dell’individuo. Questo equilibrio, sia sociale che individuale, riflette, rivela ed in qualche modo perpetua l’ordine cosmico ed ogni individuo, quando vive svolgendo la sua funzione in sintonia con i principi di ordine cosmico, è un artista e l’opera d’arte è la sua vita.

In Coomaraswami è interessante il rapporto che si instaura tra la personalità e la dimensione metafisica: per ricevere la Verità, per accogliere il Principio, per farne esperienza la personalità deve ridursi al silenzio.

La parola “silenzio” origina dal latino silēre, tacere, essere silenzioso e sembra legarsi alla radice verbale sanscrita सि- (si) che significa legare, fissare, chiudere e conserva questa idea del “contenere” del “trattenere” un qualcosa che vorrebbe esprimersi, vorrebbe mostrarsi. Il silenzio si fa ed è però anche una condizione esistenziale, qualcosa che è, come il termine yoga nel suo significato di aggiogare, legare, fissare su un punto esprime sia un fare che uno stato.

Negli Yogasūtra di Patañjali lo yoga viene definito come la restrizione, la soppressione dei movimenti di citta (yogaś citta-vṛtti-nirodhaḥ), termine che comunemente è tradotto con “mente” ma che indica piuttosto il complesso psicologico, emotivo e sensibile dell’uomo, quella che potremo chiamare, nell’ottica di Coomaraswami, personalità.

Il termine nirodha viene da ni (nel senso di non, impedimento, privazione) e la radice verbale rudh, germogliare, crescere o secondo altra ipotesi suggestiva, ma fantasiosa, da nir (nel senso privativo) e udaya, termine che tra i tanti significati comprende crescita, ascesa, produzione, manifestazione. Dunque, la tendenza naturale di citta a manifestarsi, a germogliare a crescere viene contenuta, inibita, zittita (lo yoga come “fare”) sino a ritrovarsi in silenzio (lo yoga come “stato”). Il rumore della personalità è confusione, è avidyā, etimologicamente l’incapacità di distinguere, di percepire correttamente e chiaramente. Per conoscere, per percepire correttamente (vidyā) occorre fare silenzio.

Si tratta di un silenzio radicale, un luogo in cui la personalità non dimora più, uno spazio vuoto che viene riempito dalla Verità, dal Principio.

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne; perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi» Ermete – Libro X, 5

I tempi in cui ci ritroviamo a vivere sono tempi rumorosi, siamo immersi in una costante confusione che agita la personalità alimentandone i movimenti (vṛtti) e la spinta centrifuga. Sembra dominare l’urgenza di esprimere se stessi, anche quando non c’è nulla da dire, manca il senso del pudore e la capacità di contenersi, di disciplinarsi. La struttura sociale non è più capace di incanalare in modo armonico la personalità del singolo e spesso agisce esacerbando la componente coercitiva: è una società atea, totalmente sorda al mistero, priva della dimensione trascendente e considera l’uomo una creatura meccanica: il suo interesse è che funzioni in termini economici, che produca e consumi.

In questo nostro tempo, per preservare la nostra integrità umana ed il legame con il grande mistero che è la vita è necessario ritrovare il silenzio, recuperare uno spazio in cui la personalità si acquieti, smetta di parlare, di mostrarsi e sedimenti. È necessario farsi piccoli e silenziosi, fare spazio.

“Lo studente disse al maestro: «Come posso conseguire la vita soprasensibile, in modo da poter vedere e ascoltare Dio?». Il maestro disse: «Se puoi innalzarti per un attimo dove nessuna creatura risiede, puoi sentire ciò che Dio dice». Lo studente disse: «Questo luogo è vicino o lontano?». Il maestro rispose: «È dentro di te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio». Lo studente disse: «Come posso mettere a tacere il pensiero e la volontà?». Il maestro rispose: «Quando i pensieri e i desideri dell’io fanno silenzio, ti si riveleranno la vista, l’udito e la parola eterni. Il tuo udito, la tua volontà e la tua vista ti ostacolano, impedendoti di vedere e sentire Dio»” J. Böhme

Praticare yoga è fondamentalmente ricercare il silenzio. Il saggio (मुनि muni) è silenzioso.

Pubblicato da sunyapala

"Esiste una stanchezza dell'intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del Mondo, un non poter respirare con l'Anima." F. Pessoa

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