OMNIA MUNDA MUNDIS

La disturbante evidenza dei giorni perfetti…

.A. Janzen – Ink Lines

Un guscio
di cicala, svuotarsi
nel canto

MATSUO BASHŌ

Vado di rado al cinema. Da giovane era un appuntamento fisso la domenica pomeriggio, il cinema d’essai, quello alternativo, quello dei grandi registi, spesso incomprensibile, che ti lasciava tracce indelebili e richiedeva giorni di decantazione e riflessione per essere assimilato, digerito. Un cinema pedagogico, che richiedeva uno sforzo e che poco aveva a che fare con lo svago. Quel cinema mi ha nutrita e cresciuta, ha contribuito a formare il mio gusto estetico, ha affinato la mia sensibilità, ingentilito la mia attitudine all’ascolto e mi ha resa curiosa verso ciò che non è immediatamente comprensibile, verso ciò che richiede tempo e sacrificio per essere in parte assimilato.

Poi più nulla.

“Perfect Days”, l’ultimo film di Wim Wenders mi ha sorpresa. Un film fatto di una storia semplice, la storia di Hirayama, un uomo silenzioso che lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo e che trascorre con cura le sue giornate apparentemente sempre identiche, scandite da gesti che si ripetono, come fossero rituali religiosi, gesti piccoli, piccole passioni, piccoli momenti di svago, piccole relazioni. Cose minute, fatte di sfumature, di attimi colti dalla sua macchina fotografica o celebrati dalla musica che ascolta su cassette analogiche mentre va al lavoro. Il film ha una struttura narrativa che è difficile riassumere, perché è lieve, banale e Wenders solo accenna alla storia del personaggio: le sue letture assidue (la libraia dove acquista abitualmente i libri lo chiama “intellettuale”, lui nega e sorride), la facoltosa e benestante famiglia di origine, un padre a cui Hirayama non rivolge da tempo la parola, suggeriscono allo spettatore che qualcosa sia accaduto e che Hirayama abbia “scelto” quella vita o che a quella vita si sia consapevolmente adattato. Hirayama non è sempre felice, anzi, non è mai felice. Guarda al mondo per com’è, senza alcuna ingenuità, non pretende che sia diverso e nell’assenza di ogni pretesa trova pace, trova un piccolo spazio interiore di silenzio e sorride. Un sorriso che nella scena finale, (spettacolare, grandissima e che da sola vale la Palma d’Oro a Cannes per l’attore protagonista) diventa melanconico, sofferto, triste ma rimane la sola risposta sensata al mistero della vita.

Questo sorriso rimane l’elemento profondamente disturbante del film. Non è vero, come ha dichiarato il regista, che “Ci basta meno di quanto abbiamo, l’importante è gioire di ogni cosa”, no. L’importante è sorridere, conservare il riso sotto ogni cosa, sia essa gioita o sofferta, sia essa scelta o subita. È accettare il dharma, la rinuncia, la sottomissione consapevole alla vita, al suo fluire, al suo mistero.

Wenders ha partorito una creatura sorprendente, talmente viva che gli è sfuggita di mano, a mio parere e che ci ha sbattuto in faccia una inquietante verità: la vita non va edulcorata, cambiata, significata, va vissuta. E no, nessuno invidia Hirayama, la sua vita, il suo lavoro come addetto alle pulizie: quello che lo spettatore (e forse Wim) inconsapevolmente invidia è la capacità che il protagonista ha di vivere la sua propria vita, ogni istante, regalando a quella vita apparentemente banale una pienezza, una consistenza di cui le nostre vite sono prive. Lui vive, noi trascorriamo il tempo, chi a guardare il film, chi a farlo.

Se le dichiarazioni del regista sul suo proprio film mi hanno lasciata perplessa, tanto da domandarmi se poi, una volta finito, lo avesse visto il suo film, una certa critica intellettuale progressista, lo confesso, mi ha fatto incazzare.

Lorenzo Grammatica in un articolo su http://www.lucysullacultura.it accusa il film di essere retorico, che la vita è sofferenza, caos, disordine, altro che gioire delle piccole cose e che il protagonista ha ben poco da ridere, considerato il lavoro di merda che fa (pulire i cessi per una certa parte della società civile è evidentemente un lavoro degradante e privo di dignità, infatti si chiede se lo abbia scelto: chi sceglierebbe un lavoro del genere? È roba da reietti) e la misera vita che conduce, priva di moglie, figli, affetti (non ha nemmeno un animale da compagnia, sottolinea). Insomma, per Grammatica c’è poco da ridere, che una vita “senza” non è una vita, il protagonista, in fondo, è uno senza palle, senza ambizioni ed il film piace, perché o siamo sfigati come lui o confondiamo la sua pochezza umana (eh, se non hai ambizioni, non vuoi un lavoro migliore, non competi in amore, non hai una moglie, affetti stabili e, per Dio, nemmeno un cane, insomma, non sei nessuno) per umiltà.

Questa visione disumanizzante, che considera meritevole di senso solo una vita “piena” e, badate, piena di cose il cui valore è dato per assoluto (come il lavoro, – solo un certo tipo di lavoro: ribadiamo, pulire i cessi è degradante – la famiglia, le relazioni, il desiderio di migliorare la propria condizione sociale) è profondamente materialistica e nega la validità di ogni altro approccio alla propria vita. Non solo: giudica come pericolosa ogni riflessione indipendente sul senso del proprio vivere e non ammette che si possa scegliere diversamente, non ammette la possibilità che la vita abbia comunque un senso, una densità, un valore di per sé, e che questo valore non dipenda da fattori esterni.

Il film di Wenders è potente, perché fa presagire la disturbante evidenza dei giorni perfetti, perfetti perché concessi, perché vissuti e non solo trascorsi. Ci fa intuire che si, c’è in fondo una possibilità per riuscire a sorridere in un mondo delirante, assurdo, crudele, faticoso ed è in mano nostra, anzi, è nel nostro sguardo, nella capacità che abbiamo (tutti) di guardare con occhi diversi una realtà che è quello che è e di viverla, nonostante tutto, viverla.

… DI YOGA, ORTODOSSIA ED AIRESIS: ContAnimAzioni

L’ortodossia è la tensione tra due eresie

Nicolás Gómez Dávila

Il termine “sincretismo” deriva dal greco synkrētismós (syn, insieme e krēte, Creta), ad indicare l’azione dei cretesi che misero momentaneamente da parte le proprie divergenze di pensiero ed opinione per unirsi contro il nemico comune. Fu Erasmo da Rotterdam a riprendere il termine nel senso moderno di “fusione” per indicare le tendenze conciliatrici tra scuole di pensiero diverse. L’approccio sincretico, quindi, annulla o riduce le differenze per forzare una convergenza in vista di un obiettivo comune: è un approccio utilitaristico, pratico e di convenienza, comprensibile quando viene applicato per fini pratici e politici ma profondamente riduttivo e condizionante quando viene applicato alla filosofia, alla religione o al pensiero in generale. Ogni sistema di pensiero si fonda su assiomi, principi definiti ed accettati “a priori” e ritenuti “ortodossi” (ortos, corretto, giusto e doxa, opinione) ed è a partire da questi che poi prende forma. Dunque, quando si vuole comprendere un pensiero, definirlo, bisogna contestualizzarlo e riferirlo alla sua propria ortodossia: ciò che diverge, che nega o muta l’ortodossia è eretico, cioè si separa dal pensiero originario per dirigersi altrove, si allontana.

Il termine “eretico” deriva dal greco hairesis, a sua volta derivante dal verbo hairèō, “afferrare”, “prendere” ma anche “scegliere” o “eleggere”. É interessante osservare il significato etimologico del termine: l’eretico “afferra” qualcosa ed eventualmente “sceglie” o “elegge” quel qualcosa a principio ed afferra qualcosa che sfugge all’ortodossia, afferra qualcosa che l’ortodossia non aveva definito, non aveva stabilito. Originariamente il termine indicava i diversi sistemi filosofici o, in ambito cristiano, le diverse scuole di pensiero che si andarono a sviluppare a partire da una comune matrice e non aveva un connotato negativo, indicando semplicemente un punto di vista diverso (darśana, visione) sulla realtà.

ContAnimAzioni è un progetto che nasce molti anni fa da una sensazione che non sapevo connotare chiaramente, dal presentimento confuso dell’importanza di una certa ortodossia nella pratica dello yoga che lasciasse spazio all’hairesis, all’ascolto di quel qualcosa che sfugge, che è estraneo e che evitasse “per principio” ogni tentativo sincretico. Parlare di ortodossia nello yoga contemporaneo è come parlare di niente, da un certo punto di vista, perché nello yoga convergono elementi che appartengono a tradizioni lontane nel tempo, tra loro diverse, che avevano finalità completamente “altre” ed improponibili oggigiorno a chi pratica. Eppure una certa coerenza “tecnica” è un indispensabile artifizio, perché la pratica è fondamentalmente un attento ascolto, che si fa sempre più raffinato e la tecnica, il “fare” yoga, l’azione, che riguardi il corpo od il respiro, è un primo oggetto di questo ascolto. Quindi mi pareva evidente la scelta di utilizzare la pedagogia del viniyoga come strumento tecnico, perché trasmette le tecniche dello yoga con coerenza, con una logica sottile e raffinata, esteticamente affascinante che coinvolge ogni aspetto del praticante. L’elemento eretico in questo progetto ha una funzione pedagogica, ed è introdotto per impedire l’instaurarsi dell’abitudine, dell’automatismo nell’ascolto: la pratica non può diventare consueta, perché rischia di diventare inconsapevole e di trasformarsi in “esercizio” e l’elemento “divergente” afferra l’attenzione e la ravviva, costringe alla presenza. L’eresia viene da contesti “estranei” al mondo dello yoga, contesti che hanno una propria ortodossia e che non voglio assolutamente far convergere o fondere con la pratica: sono piuttosto spunti, pretesti per rafforzare l’attenzione, rinfrescare l’interesse. L’uso dell’elemento eretico è evocativo, apre una finestra su un’altra “visione” possibile, raffina lo sguardo ed evita per principio tecnico ogni sincretismo: mondi diversi, dove l’elemento individuale, la soggettività ed unicità di chi compie l’esperienza è il solo elemento in comune. Diverse ortodossie che si sostengono funzionalmente, che alludono, indicano e che non possono mai ridursi ad un “medium” comune, perché si sottraggono alla deduzione, alla conclusione logica, al ragionamento e rimangono sospese.

ContAnimAzioni propone, a partire dal mese di giugno di quest’anno, una serie di seminari chiusi, adatti sia a chi pratica in modo continuativo che a chi vuole fare un’esperienza estemporanea dello yoga che avranno come filo conduttore l’ortodossia della pratica, un contesto eretico, nessun sincretismo, nessun nemico da combattere…

ĀSANA

Il corpo è offerta sacrificale

VASUGUPTA

Questo progetto nasce a partire dall’esperienza personale della dimensione corporea nella pratica di yoga. Esiste un corpo soggettivo, multiforme, polivalente, ambiguo, speciale, non esiste “il corpo” ed ogni corpo nello yoga è ontologicamente connesso al suo complesso psichico, non vale la netta distinzione tra psychè e soma, di platonica memoria, che finisce per assegnare all’ambito psichico una nobiltà ed una dimensione superiore al corpo fisico. Entrambi prodotti della stessa sostanza, si intersecano e determinano vicendevolmente e costituiscono il presupposto del mio esistere in forma umana, mi definiscono come IO, sono uno strumento del mio agire ed il mio luogo: nessuna esperienza, in questa forma contingente umana, può prescindere dalla dimensione corporea così intesa. Il termine āsana indica lo stare seduti, la posizione meditativa e, per estensione, ogni posizione eseguita nella pratica yoga. Attraverso il corpo in āsana si fa un’esperienza, ci si pone nel luogo corporeo, attraverso il corpo, identificati con esso e lo si sacrifica alla posizione, lo si pone ad essere in un modo specifico, particolare, che per azione sul simile lavora sull’intero complesso umano non essendoci, come detto, separazione tra psiche e corpo. Cosa accade? L’esperienza è sempre soggettiva, intima, personale e non è univoca, ogni āsana rivela qualcosa a chi la pratica. C’è un continuum che attraversa il complesso psichico ed il corpo, qualcosa sembra ogni tanto esistere al di là della dimensione esperibile, un presentimento, direbbe Baret, una sensazione, qualcosa che c’è sempre stato e che non potevo vedere ed ora, attraverso l’azione, intuisco. È l’elemento di gratuità dell’esperienza che è fondamentale: non pratico per stare bene, per la performance ginnica, non c’è un āsana perfetto da raggiungere, ma un’esperienza da fare, da ricercare con la stessa curiosità con cui i bambini sperimentano il mondo, disinteressati, affatto preoccupati del risultato del loro ricercare. L’ āsana è un inno alla vita, vissuta in ogni sua sfumatura come un dono, un’occasione.

Questo progetto ha preso forma grazie ad Anna Tcaplina1, che ha dato corpo al mio sentire: sue sono le foto.

MEDEA – Ara Pacis

“Non cercate una vita facile e stupida. Vi auguro ciò che temete di più,
perché ciò di cui avete paura è esattamente ciò di cui avete bisogno per trovare la vostra bellezza.
Tutto quel che volete, quel che desiderate vi è del tutto inutile. Ciò di cui avete bisogno, lo siete.
Un solo pensiero e il cerchio è spezzato”
E. Baret

SAGRADO – Fiume Isonzo

“Vale di più, figlioli, l’ombra di un albero che la conoscenza della verità,
perché l’ombra dell’albero è vera finché dura mentre la conoscenza della verità è di per sé falsa.
Vale di più, per una giusta comprensione, il verde delle foglie che non un grande pensiero,
perché il verde delle foglie potete mostrarlo agli altri, ma mai potrete mostrare agli altri un grande pensiero.
Nasciamo senza saper parlare e moriamo senza aver saputo dire.
La nostra vita trascorre fra il silenzio di chi tace e il silenzio di chi non è stato compreso,
e intorno a tutto ciò, come un’ape in un luogo senza fiori, aleggia sconosciuto un inutile destino”.
F. Pessoa

GORIZIA/NOVA GORICA – Stazione Transalpina

“Esiste una conoscenza che toglie peso e portata a quello che si fa
e per la quale tutto è privo di fondamento tranne essa medesima.
Pura al punto da aborrire perfino l’idea di oggetto,
traduce quel sapere estremo secondo il quale fare o non fare un atto è la stessa cosa,
e a cui si associa una soddisfazione altrettanto estrema: il poter ripetere, a ogni incontro,
che nessuno dei gesti da noi compiuti merita la nostra adesione,
che niente è avvalorato da una qualche traccia di sostanza, che la “realtà” è dell’ordine dell’insensato.
Una tale conoscenza meriterebbe di essere definita postuma:
opera infatti come se chi conosce fosse vivo e non vivo, essere e memoria di essere.
“È già passato” dice costui di tutto ciò che compie,
nell’istante stesso dell’atto, che viene così destituito per sempre di presente.”
E. Cioran

GORIZIA – Periferia della Città

“Sappiate avere torto, il mondo è pieno di gente che ha ragione. È per questo che marcisce.”
Céline

GRADO – Spiaggia Villaggio Ca’ Laguna

“I vostri problemi non esistono, il problema siete voi e voi non esistete.”
U. G. Krishnamurti

MONFALCONE – Parco della Grande Guerra

“L’unico modo giusto di fare è Essere.”
Lao Tzu

PALMANOVA – Mura Esterne

“Prendi le tue forze ben disciplinate e tendile fra due poli opposti:
poichè è all’interno dell’essere umano che Dio apprende”
R. M. Rilke

ROMANS D’ISONZO – Ex Polveriera

“In principio questo universo era solamente Quello in forma di Puruṣa.
Egli si guardò intorno ma non vide altro che se stesso.
Così per prima cosa disse: “Io sono Quello”. Perciò ‘Io’ divenne il suo nome”
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad

VILLESSE – Ponte Dismesso della Ferrovia

“Vendi la tua intelligenza e compra stupore”
Rumi

DUINO – Sentiero Rilke

“Otello burattino: Ma qual è la verità? E’ quello che penso io de me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro?
Jago burattino: Cosa senti dentro di te? Concentrati bene… cosa senti, eh?
Otello burattino: Sì, sì, si sente qualcosa che c’è!
Jago burattino: Quella è la verità! Ma sssssshhh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più…”
P. P. Pasolini – Cosa sono le nuvole

1. Anna Tcaplina, nasce in Russia nel 1984, giovanissima si trasferisca a Mosca dove studia Marketing e pubblicità interessandosi soprattutto alla componente visiva ed artistica della comunicazione pubblicitaria. Il suo interesse per la fotografia come strumento di comunicazione risale all’adolescenza e vi si approccia professionalmente nel 2010 iniziando a frequentare a Mosca diversi corsi di formazione tenuti da importanti fotografi locali, specializzandosi nel ritratto. Trasferitasi in Italia nel 2014, sceglie di dedicarsi totalmente alla fotografia fondando nel 2017 il suo studio fotografico Airone Foto.
Contatti: 333 5740309 http://www.aironefoto.com

… DI ALTRE STORIE: REGRESSUS AD UTERUM

D. Lévy – Abstract White Reliefs

La luce spunta nelle tenebre per gli onesti, per chi è misericordioso, pietoso e giusto.

SALMI 112, 4

Samahin è la notte di passaggio, il varco che conduce, attraverso le giornate di Ognissanti e dei Morti, alla stagione oscura. Attendo ogni anno questi giorni che quest’anno si preannunciavano poco poetici, per il gran caldo ed il sole che illumina di luce non vera, elettrica, il cielo. Al mattino, il primo novembre, un dono: la nebbia, il cielo coperto e l’odore delle foglie che marciscono e ritornano alla Terra a rendere quello che l’albero aveva dalla Terra ricevuto e così insegnano il senso del vivere, che è un restituire. Questa giornata non può che essere consacrata, mi dico, ad una camminata nella natura, tra gli alberi, l’acqua, la terra. Allora si va: la grazia di avere le Valli del Natisone a mezz’ora di strada, il nome evocativo di un luogo mai visto, Foran des Aganis. Foran in friulano indica l’abisso, la profondità, l’orrido, un anfratto, una cavità e le Aganis sono creature magiche descritte nella mitologia friulana, spiriti femminili che popolano i corsi d’acqua e come i corsi d’acqua sanno essere dolcissime o tremende.

Il viaggio si rivela “iniziatico” sin dal suo inizio: sbagliamo strada ed il percorso per raggiungere il Foran si fa lungo e per niente facile. Si deve scavallare il monte, superare 650 mt. di dislivello e scendere poi alla ricerca delle Aganis. Il monte ha un nome suggestivo: Picat. Aleggiano strane storie, forse originariamente era Picjat, impiccato e si riferiva all’uso da parte dei Signori di Suffumbergo di impiccare i dissidenti durante il Medio Evo o forse, più semplicemente, significa “piccolo monte”. Io naturalmente propendo per l’Impiccato e mi viene in mente la carta dei Tarocchi, il dodicesimo Arcano maggiore che, finito il suo percorso (i primi 11 Arcani) si capovolge, ritorna ad essere una creatura fetale pronta a rinascere, sospesa per un piede con una corda, perché ancora trattenuto ad un qualcosa, le braccia conserte dietro la schiena, come un rinunciante che attende la sua ora per rinascere, certo della Grazia, confidente nel miracolo. Attende che la corda si sfili o che venga recisa, attende ed a me pare gioire, dondolando a testa in giù.

Sul percorso per “superare” l’Impiccato, segni e sintomi. Un cartello narra delle Krivapete, streghe che popolano le Valli ed hanno i piedi ruotati all’indietro, le punte guardano la strada percorsa, i talloni la strada da fare: una viparīta, un’inversione dei piedi sul piano orizzontale, un “sottosopra” orizzontale che è preludio al caos, ad un cambio di prospettiva creativo e tremendo. Le Krivapete hanno i capelli verdi, sono donne dotate di una grande ed intollerabile autonomia, trasgressive, selvagge, conoscono le erbe, sanno essere magnanime e crudeli e rapiscono i bambini, perché, si narra, alcune sono cannibali. Il cartello, per bocca della Krivapeta, ammonisce:

“Quando tutto è diventato segno e un solo segno sostituisce tutte le cose, tu cominci a chiederti che cosa contenga o nasconda questo fitto involucro di segni. Ti sei accorto che mentre credi di visitare la città, non fai altro che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa. Finalmente, tu comprendi che solo ciò che è mitico è reale. Per esempio, l’ardere di un cielo stellato in una notte d’estate, questo è una vera esperienza

e ancora:

Senza una nuova “consacrazione” delle montagne, dei boschi, del tempo, non ti salverai. Non ti ricordi, quando bevevi l’acqua del fiume? Ti stanno rubando il futuro. Per i loro profitti. Loro, quelli del segno.

Il sentiero dopo l’incontro con la Krivapeta si fa confuso, non è ben segnato, si va, confidando sia quello giusto. C’è una piccola costruzione nel mezzo del bosco, l’impiccato ormai è quasi completamente “scavallato” ed il cartello, caduto a terra, racconta di un certo Dante Zussino, un Sannyāsī delle Valli che pare abbia abbandonato il mondo e si sia ritirato a vivere qui, in mezzo al bosco, in mezzo al nulla, lontano dalla civiltà città che allergica, in questa minuscola capanna, il letto fatto di assi e tronchi, una stufa a legna, un tavolo e nient’altro. Un rinunciante. Nelle Valli. Segni, sintomi.

L’impiccato alle spalle, la vista si allarga sulla vallata e tra i cani che abbaiano a custodia di un gregge, altri che abbaiano a custodia di una casa immersa negli alberi, un uomo ci indica la strada per il Foran, LA via: vive qui, in quella casa tra gli alberi, con il fotovoltaico e gli accumulatori che gli danno 4 ore di elettricità al giorno, sufficienti a ricaricare il cellulare e la sigaretta elettronica. “Sono per la vita semplice” dice, “Mi interessano droga, figa e pace”. Rispondo in friulano “cemût dati tuart? (come darti torto?)”. La via è scoscesa, occorre prudenza, ci si deve aiutare afferrando gli alberi, le pietre. Poi si fa comoda, larga, pianeggiante a dare un po’ di respiro,

Il Foran des Aganis è segnalato da un Cristo crocefisso, c’è un sentiero che scende verso il torrente, si fa scivoloso, di nuovo impervio e poi, eccolo. Un foro, un buco nella parete del monte da cui sgorga un rigagnolo d’acqua che si ingrossa pian piano e da vita ad un torrente che scorre giù, a valle. Come un animale attratto, fortemente attratto dalla tana, entro.

L’acqua tra i piedi, dopo pochi metri la vista è difficile. Illuminando con la luce del telefono una enorme Yoni umida si apre ad accogliere chi osa entrare ancora più in profondità, sino all’utero della terra per incontrare il buio, un buio indescrivibile, un nero che gli occhi non sanno riconoscere e nessun rumore, tranne quello dell’acqua che non vedo più ed ora potrebbe scorrere ovunque, sotto, sopra, dentro di me. Resto così, nel ventre della terra, ferma, al buio. La sensazione è certamente erotica, di vita che scorre, di terrore che sta lì, pronto ad afferrarti e di misericordia.

Misericordia deriva etimologicamente dal latino “misereor cordis”, ho pietà del cuore, ne ho compassione . In ebraico, misericordia si rende con hesed, termine che implica un atto di pietà intesa come la relazione che unisce due parti, è cioè una “bontà” cosciente, voluta e praticata per tenere fede a se stessi e a Dio, una misericordia razionale. Un altro termine ebraico, usato di frequente nella Bibbia e reso con “misericordia” è rahamîm. Questo termine è formato da rehem, utero e mayim, acque ed evoca un sentimento viscerale, irrazionale, che emerge indipendentemente dalla propria volontà, è l’amore di Dio che, per sua stessa natura è amore. Ogni sūra (tranne la IX) del Corano inizia con “bi-smi llāhi r-raḥmāni r-raḥīmi”, “nel nome di Dio, il clemente, il misericordioso” ed il termine arabo raḥīmi è modulato sulla stessa base linguistica: Dio utero, che accoglie in misericordia (e sorrido pensando alle menate sul patriarcato nelle religioni del Libro…). Il termine sanscrito per “misericordia” è mṛḷīka, dalla radice mṛḍ, che tra i tanti significati include quello di deliziare, rendere lieto, mṛḍa è uno dei nomi di Śiva, suggestivamente il “misericordioso”, appunto, e mṛḍā è uno dei nomi di Durgā, la terribile, nel suo aspetto compassionevole.

Nel riemergere dall’antro penso a questa “misericordia” viscerale che sento essere preludio al tremendo. E non so spiegare ma sembrano ad un tratto evidenti gli aspetti terrificanti del Dio degli ebrei, l’ira del Cristo nel Tempio, I nomi terribili del Dio dei musulmani, gli aspetti distruttivi della Dea, i riti nei campi crematori degli Aghori, la furia implacabile della Natura, la Morte, il buio. In un quadro che non so dipingere, sono i vari colori della misericordia di Dio, che accoglie chi gli si affida, come la Terra che accoglie ciò che a lei si restituisce, che accoglie i Morti. E penso al simbolo, che è evidente, mai nascosto e sempre presente in ogni gesto quotidiano. L’antro, la cavità, l’infossarsi, lo scendere in profondità dove non si vede nulla sono simboli vivi del processo iniziatico che riconducono al proprio sé anche quando se ne fa esperienza inconsapevole, perché si sbaglia strada. Anzi, forse il segreto è sbagliarla, la strada, che solo così si ottiene misericordia…

FAR(SI) SILENZIO

M. Clifford – Corsia in Garza con Intarsi

Colui che tace è salvo

MAOMETTO (SAW)

Ānanda Coomaraswami nel suo “Bellezza e verità – saggi sull’arte cristiana ed orientale” (ed. Luni) delinea i principi dell’arte tradizionale e le differenze rispetto la moderna concezione dell’opera d’arte e dell’artista. Tradizionalmente la figura dell’artista e dell’artigiano coincidevano e la funzione dell’artifex, dell’artefice, era quella di concretare nell’oggetto, a seconda della sua funzione od uso ed in accordo all’intelligenza di coloro che poi ne usufruiranno, principi di ordine cosmico, verità immutabili. L’oggetto è oggetto d’arte quando assolve sia alle necessità di ordine pratico di chi ne fruisce, che a quelle di ordine spirituale ed il “bello” coincide con il “Vero”. L’oggetto artistico ha sempre una valenza simbolica, perché esprime in un linguaggio “trasversale”, che si rivolge allo Spirito, verità di ordine ontologico e metafisico, educa cioè chi ne fruisce sui principi che reggono l’ordine cosmico. Tradizionalmente, ogni oggetto “creato” dall’uomo era artistico, perché rispettava questi principi. La funzione dell’artefice dell’opera d’arte era quella di attualizzare questi principi nel modo più fedele possibile, ricreandoli nell’opera secondo le sue capacità, che potremo chiamare “tecniche”. La personalità dell’artefice rimane anonima, occultata, perché è il Vero che deve risplendere ed il processo di creazione diviene rituale, nel senso che perpetua e ribadisce il legame esistente tra l’ordine divino e quello umano.

La concezione dell’opera artistica come espressione dell’estro, della personalità o delle idee dell’artista è moderna, così come è moderna l’idea di estetica. L’artista tradizionale è strumento e non lascia traccia di sé se non nella maestria con cui crea, mentre l’artista moderno si riconosce dall’opera, perché in essa egli esprime innanzitutto se stesso, la sua personalità. Laddove il bello nell’arte tradizionale concerne il Vero e per questo è oggettivo e va conosciuto (nel senso di gnôsis, jñāna), nella concezione moderna il bello è estetico, inteso nel suo significato etimologico, dal greco αἰσϑητικός, che concerne la sensazione, riguarda cioè la percezione sensoriale ed è dunque soggettivo. L’oggetto d’arte tradizionale è utilizzato, fa parte del mondo e della vita dell’uomo mentre l’oggetto d’arte moderno è esposto nei musei, è esiliato dalla vita quotidiana.

Nella prospettiva di Coomaraswami, dunque, la personalità dell’artista (per “personalità” si intende la struttura psico-emotiva e sensoriale con cui interagiamo nel mondo e ci identifichiamo) si contiene, tace per lasciare spazio al Vero, di cui si fa serva (servo: dal latino servus, che alcuni derivano dalla radice sero, annodo, connetto), mentre nell’arte contemporanea diviene padrona, occupa interamente lo spazio interiore dell’artefice che avverte l’urgenza di esprimerla in una qualche opera, in un generico “fare”.

Nell’uomo la personalità è lo strumento unico, potremo dire l’interfaccia particolare, con cui si relaziona al mondo e l’uomo tradizionale è educato alla continenza e considera un valore disciplinare la propria personalità, rendendola funzionale al ruolo che egli svolge all’interno del contesto sociale in cui vive; l’educazione stessa ha anche la funzione di insegnare al singolo a contenere la propria personalità per garantire sia l’equilibrio sociale, che l’integrità psicofisica dell’individuo. Questo equilibrio, sia sociale che individuale, riflette, rivela ed in qualche modo perpetua l’ordine cosmico ed ogni individuo, quando vive svolgendo la sua funzione in sintonia con i principi di ordine cosmico, è un artista e l’opera d’arte è la sua vita.

In Coomaraswami è interessante il rapporto che si instaura tra la personalità e la dimensione metafisica: per ricevere la Verità, per accogliere il Principio, per farne esperienza la personalità deve ridursi al silenzio.

La parola “silenzio” origina dal latino silēre, tacere, essere silenzioso e sembra legarsi alla radice verbale sanscrita सि- (si) che significa legare, fissare, chiudere e conserva questa idea del “contenere” del “trattenere” un qualcosa che vorrebbe esprimersi, vorrebbe mostrarsi. Il silenzio si fa ed è però anche una condizione esistenziale, qualcosa che è, come il termine yoga nel suo significato di aggiogare, legare, fissare su un punto esprime sia un fare che uno stato.

Negli Yogasūtra di Patañjali lo yoga viene definito come la restrizione, la soppressione dei movimenti di citta (yogaś citta-vṛtti-nirodhaḥ), termine che comunemente è tradotto con “mente” ma che indica piuttosto il complesso psicologico, emotivo e sensibile dell’uomo, quella che potremo chiamare, nell’ottica di Coomaraswami, personalità.

Il termine nirodha viene da ni (nel senso di non, impedimento, privazione) e la radice verbale rudh, germogliare, crescere o secondo altra ipotesi suggestiva, ma fantasiosa, da nir (nel senso privativo) e udaya, termine che tra i tanti significati comprende crescita, ascesa, produzione, manifestazione. Dunque, la tendenza naturale di citta a manifestarsi, a germogliare a crescere viene contenuta, inibita, zittita (lo yoga come “fare”) sino a ritrovarsi in silenzio (lo yoga come “stato”). Il rumore della personalità è confusione, è avidyā, etimologicamente l’incapacità di distinguere, di percepire correttamente e chiaramente. Per conoscere, per percepire correttamente (vidyā) occorre fare silenzio.

Si tratta di un silenzio radicale, un luogo in cui la personalità non dimora più, uno spazio vuoto che viene riempito dalla Verità, dal Principio.

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne; perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi» Ermete – Libro X, 5

I tempi in cui ci ritroviamo a vivere sono tempi rumorosi, siamo immersi in una costante confusione che agita la personalità alimentandone i movimenti (vṛtti) e la spinta centrifuga. Sembra dominare l’urgenza di esprimere se stessi, anche quando non c’è nulla da dire, manca il senso del pudore e la capacità di contenersi, di disciplinarsi. La struttura sociale non è più capace di incanalare in modo armonico la personalità del singolo e spesso agisce esacerbando la componente coercitiva: è una società atea, totalmente sorda al mistero, priva della dimensione trascendente e considera l’uomo una creatura meccanica: il suo interesse è che funzioni in termini economici, che produca e consumi.

In questo nostro tempo, per preservare la nostra integrità umana ed il legame con il grande mistero che è la vita è necessario ritrovare il silenzio, recuperare uno spazio in cui la personalità si acquieti, smetta di parlare, di mostrarsi e sedimenti. È necessario farsi piccoli e silenziosi, fare spazio.

“Lo studente disse al maestro: «Come posso conseguire la vita soprasensibile, in modo da poter vedere e ascoltare Dio?». Il maestro disse: «Se puoi innalzarti per un attimo dove nessuna creatura risiede, puoi sentire ciò che Dio dice». Lo studente disse: «Questo luogo è vicino o lontano?». Il maestro rispose: «È dentro di te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio». Lo studente disse: «Come posso mettere a tacere il pensiero e la volontà?». Il maestro rispose: «Quando i pensieri e i desideri dell’io fanno silenzio, ti si riveleranno la vista, l’udito e la parola eterni. Il tuo udito, la tua volontà e la tua vista ti ostacolano, impedendoti di vedere e sentire Dio»” J. Böhme

Praticare yoga è fondamentalmente ricercare il silenzio. Il saggio (मुनि muni) è silenzioso.

QUINTO: NON NUTRIRE

M. Rakovic – Senza Titolo

Siete grotteschi! Grotteschi e disgustosi! Perché mangiate se non avete fame?

marco ferreri – la grande abbuffata

In questi giorni stanchi, dove tutto pare immobile ed osservo rassegnata la noia che si insinua ed espande, portando con sé il compagno fedele, il sonno e quell’astio nervoso che rende impossibile vestirsi, andare, interagire, vivere una vita sociale, ho letto un libricino per certi versi sorprendente: “Ritorno all’oggetto interiore” di Gian Antonio Gilli (ed. Mimesis, 2017). L’autore è un sociologo che si dedica da anni allo studio dello schema corporeo e dell’esperienza religiosa ed il testo in questione propone una interessante lettura sociologica del percorso mistico. In sintesi, l’autore traccia un parallelo tra la progressiva opera di socializzazione del bambino che si ritrova alla nascita completamente integrato in se stesso ed appagato nell’introversa contemplazione di quello che Gilli chiama “oggetto interiore” (ossia la configurazione alla nascita di ciascun soggetto), oggetto interiore da cui dovrà progressivamente distogliersi per entrare nella vita sociale e la via mistica che sembra proporre un percorso all’inverso, dalla condizione dell’individuo socialmente integrato, estroverso, che ha abbandonato la sua condizione primaria, al ritrovamento di quella, quindi un ritorno all’oggetto interiore.

Secondo l’autore, il processo di socializzazione del bambino procede per via sensoriale: è attraverso la stimolazione sensoriale che il bambino viene coinvolto socialmente, viene allontanato da se stesso ed introdotto nel mondo, con le sue forme, i suoi colori, i suoi oggetti molteplici. La risposta dell’adulto che se ne prende cura alla reazione del bambino rispetto l’incontro sensoriale con ogni oggetto esteriore, ogni oggetto mondano, insegna al bambino quelli che Gilli definisce “proto valori” ossia “quei valori che si collocano alle radici stesse dei comportamenti, degli atteggiamenti, delle manifestazioni di preferenze, eccetera” ed insegna il volere, la volontà, che per l’autore è un “conferimento della socializzazione”. Con l’esercizio della volontà il bambino si apre alla molteplicità, alla conoscenza (che è sempre una relazione tra soggetto ed oggetto esterno a sè ed è temporalmente e spazialmente connotata) abbandona l’essere e diviene.

Il mistico traccia il percorso a ritroso: ritirandosi dal molteplice, egli abbandona l’esercizio della conoscenza, rinuncia all’atto volitivo e giunge così a non nutrire più desiderio sensoriale, si disinteressa al mondo e converge verso il proprio oggetto interiore, con il quale, secondo l’autore, egli stabilisce un rapporto strettamente soggettivo ed esclusivo.

In entrambi i percorsi, l’aspetto sensoriale sembra avere un ruolo cruciale: i sensi sono una porta che, a seconda della direzione in cui la si percorra, conduce al mondo o emancipa dal mondo.

Il ruolo dei sensi è cruciale anche nel percorso dell’aṣṭāṅgayoga di Patañjali: Pratyāhāra, “ritiro dei sensi”, il quinto degli otto aṅga è una porta che separa lo yoga esterno, descritto dai primo quattro, dallo yoga interno che conduce attraverso il processo meditativo al samādhi, una sorta di identità, di fusione del soggetto che si perde assorbito dall’oggetto di meditazione.

I primi quattro aṅga tengono in un certo senso conto della dimensione sociale, cioè del rapporto del praticante con gli altri, con se stesso in quanto individuo inserito in un ambito sociale, con il proprio corpo, inteso come “oggetto” soggettivo ed il respiro, anch’esso inserito in una dimensione soggettiva e di relazione, ma non hanno una valenza morale, non sono cioè pensati affinchè lo yogi si inserisca nella dimensione sociale, sono invece strumentali, servono a creare un contesto sociale poco disturbante. Così, per esempio, la non violenza, la veridicità, il non rubare, il contenimento sessuale ed il rifiuto dell’avidità sono per lo yogi comportamenti funzionali atti a semplificare la sua esistenza tra gli uomini, non a renderla migliore ed egli adotta un comportamento etico per non avere complicazioni sociali, perchè possono inquinare ed ostacolare il percorso alimentando la confusione mentale, non per conformità sociale o riguardo morale. Lo yogi, il mistico, nasce asociale.

Lo yoga interno, invece, riguarda una dimensione che non possiamo definire facilmente, perchè è soggettiva, nel senso che riguarda il soggetto quando per soggetto si intenda grammaticalmente il termine di cui si afferma ogni predicato, considerato di per sè e completamente avulso dalla dimensione sociale, ma conduce ad una condizione di cui non si può affermare nulla, non ci sono attribuzioni soggettive possibili, perchè nelle sue intenzioni porta all’annichilimento del soggetto (dell’io sono, dell’io predicato) stesso. In quest’ottica, nel culmine dell’esperienza mistica non c’è un soggetto coinvolto dal suo “oggetto interiore”, perchè non esiste più alcun soggetto. Così, volendo fare in questo caso un paragone con l’ipotesi del Gilli, se la condizione primaria del bambino risultasse coincidere con la condizione ultima del mistico, risulterebbe difficile parlare di “soggetto” che è preso dal proprio oggetto interiore, perchè quando si è ormai in un rapporto con un oggetto interiore od esteriore definito, dunque delimitato, la condizione primaria è ormai andata perduta.

Pratyāhāra è composto da un suffisso, prati, che indica un “andare in direzione opposta” e dal termine maschile āhāra, cibo, nutrimento. Indica in qualche modo un “contro nutrimento” dei sensi. Per Patañjali avviene quando i sensi non vengono in contatto con i rispettivi oggetti. Il termine tradotto con “non vengono a contatto” è asamprayoge, letteralmente non agganciato, non unito ed indica non tanto una forma di insensibilità verso gli stimoli sensoriali, quanto piuttosto il non unirsi ad essi, un non coinvolgimento, cioè indica un atteggiamento che percepisce ma non elabora la sensazione, non vi indulge, non la colloca, non la significa, resta sospeso.

“Non trattiamo del mancare delle cose, che non denuda l’anima che ne conservi appetito, bensì trattiamo della nudità del gusto e dell’appetito delle cose, che è ciò che lascia l’anima libera e vuota di esse anche quando le abbia” San Giovanni della Croce – Salita al Monte Carmelo

I sensi sono intimamente legati alla mente e la loro potenza è tale da trascinare la mente con sè, sull’oggetto.

Se anche uno dei sensi scivola via, la conoscenza di una persona scivola via con quel senso, come l’acqua da un recipiente” Manu

E ancora

O figlio di Kunti, i sensi sono così turbolenti che possono trasportare via di forza anche la mente di un uomo saggio che si sforza di controllarli” Bhagavad Gītā II, 60

Pratyāhāra è dunque un concetto ambivalente, perchè se da un lato indica essenzialmente la condizione dei sensi sotto il controllo di una mente stabile, concentrata ed incapaci di “condurre il gioco”, dall’altro sembra suggerire anche una parte attiva, una prassi che prevede un digiuno sensoriale e che si traduce nell’esercizio del silenzio, nell’astinenza dal cibo, nel far digiunare gli occhi, evitando di innondarli costantemente di immagini e la funzione di questa prassi è quasi fisiologica, serve a rendere la mente più forte e capace di porsi verso gli oggetti offerti dai sensi in modo distaccato, come uno spettatore esterno che osserva senza farsi da questi trasportare. Così, una pratica di digiuno sensoriale è di aiuto per calmare la mente e renderla capace a concentrarsi ed una mente concentrata manterrà costantemente il controllo sui sensi, non si farà sedurre, cioè condurre fuori da sè.

Quando la seduzione sensoriale è annichilita, il soggetto si pone dentro di sè ed è in questo spazio che coltiva l’ascolto di un oggetto. C’è cioè ancora una relazione soggetto/oggetto, ma si risolve in un ambito interiore, non esterno. L’elemento distintivo è l’unicità dell’oggetto su cui è posta l’attenzione: ritornando al Gilli, nel bambino l’oggetto interiore è lui stesso, nel mistico Dio. Per Patañjali, questa fase è preliminare all’esperienza mistica, perchè questa si risolve, come già detto, nell’annichilazione del soggetto e nella perdita di senso del rapporto soggetto/oggetto. Il linguaggio che descrive in Patañjali l’esito finale del processo di liberazione è oscuro, simbolico, perchè non può rendere concettualmente qualcosa che, io credo, trascende non solo gli strumenti del linguaggio ma le stesse categorie del reale in cui ci muoviamo.

Il percorso di “ritorno al proprio centro” comporta inevitabilmente un allontanamento dalle dinamiche sociali e richiede dunque una forma di astinenza sensoriale praticata, che si rende necessaria per “ritrovare la strada”. Ritrovare la propria integrità, preservarla dall’inquinamento e dai turbamenti che ogni convivenza sociale inevitabilmente impone, “essere nel mondo, ma non del mondo” è solo un prerequisito necessario, non è lo scopo della ricerca.

Sappi che l’anima per giungere alla totale trasformazione in Dio deve smarrirsi e negarsi alla vita, al suo soffrire, sapere, potere e morire, vivendo e non vivendo, morendo e non morendo, patendo e non patendo, rassegnandosi e non rassegnandosi, senza riflettere su nulla” M. de Molinos

CREDO, ERGO EX-ISTO…

Dipinto su carta – India, XVII secolo

Ma se non crederete, non avrete stabilità.

libro di isaia

Partiamo dall’etimo. L’origine di una parola ne svela il significato, la rende carne da digerire ed assimilare. Credere viene dal latino crēdo, dal proto-italico krezdō, discendente del proto-indoeuropeo ḱred dheh, a sua volta composto di ḱḗr, “cuore”, stessa radice del latino cor e dheh, “mettere, stabilire”: dunque il significato di “mettere il cuore in”, riporlo altrove, fuori da sé, in qualcosa d’altro.

Il luogo del cuore si rivela carico di significati simbolici in ogni cultura, così nell’Antico Testamento troviamo descritto il cuore come l’organo che ci è stato donato per comprendere:

“Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro perché ragionassero. Li riempì di dottrina e d’intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male. Pose lo sguardo nei loro cuori per mostrar loro la grandezza delle sue opere.”

Siracide 17, 5 – 7

Luogo dei sentimenti, dell’amore, nell’Islam custodisce rūḥ, il sé immortale dell’individuo ed è il luogo ove si intona lo dikhr, il ricordo di Allah, nel Sufismo.

Ancora, in Patanjali è con il saṃyama (la concentrazione) sul cuore che nasce la conoscenza della mente (Y.S. III, 34) e nello Sārdhatriśatikālottaratantra, uno dei primi testi tantrici śaiva a menzionare la Kuṇḑalinī, questa viene descritta come una spirale primordiale che risiede nel cuore.

Ma torniamo al credere. C’è un termine sanscrito che gli corrisponde ed è Śrāddha, una parola composta da śrat che in unione con la radice dhā, mettere, porre conserva il significato di “cuore” e ricalca il significato del latino crēdo a significare dunque il porre il proprio cuore in qualcosa, avere fiducia.

In Patanjali, l’atto di abbandono fiducioso al Signore è descritto dal termine praṇidhāna. Questa parola conserva la radice verbale dhā che nel verbo praṇidhā assume il significato di porre di fronte, depositare, rivolgere lo sguardo finanche mandare come emissario.

L’atto del credere sembra dunque implicare due gesti: l’espropriazione di una parte di sé, la parte fondamentale ed il riporla fuori da sé, in qualcos’altro. Il gesto è rivoluzionario, perché scardina l’integrità dell’individuo, eppure è parziale quando viene interpellata la ragione a comprendere e dare il beneplacito. Il credere deve essere fanatico, ossia in relazione col termine arabo fanā, presupporre cioè l’annichilamento, la distruzione di ogni pretesa di sicurezza e conferma e deve implicare uno “stare fuori” dagli schemi del cogito, un ex-sistĕre. L’esistere, dunque, pare quasi etimologicamente e, mi piace supporre, metafisicamente associato al credere come se il mistero del primo si possa risolvere solo nel gesto del secondo.

Tommaso, uno dei dodici, detto il gemello, non era con loro quando venne Gesù. Gli altri discepoli gli dissero: “Abbiamo veduto il Signore”. Ma egli rispose: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e Tommaso era con loro. Gesù venne di nuovo, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”. Poi si rivolse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato. E non essere incredulo, ma credi”. Rispose Tommaso: “Signore mio e Dio mio!” E Gesù gli disse: “Tu hai creduto perché mi hai veduto. Beati quelli che hanno creduto senza aver veduto”.

Giovanni 20, 24 – 29

Lo stato di beatitudine viene dal credere senza aver visto. La parola “beati” nell’originale testo in greco, μακάριος, denota coloro i quali hanno ricevuto la grazia dal Signore e (per questo) sono invidiati. Nel passo evangelico, che trovo tremendamente potente, il credere è un atto di resa, un’obbedienza ad un “altro” invisibile che ci feconda e ci grazia con la fede stessa, perché nulla viene dall’individuo se non la resa ed ogni gesto soggettivo non è che illusione, vanità.

E ancora, ricordo il passo evangelico dell’annunciazione del Signore e come all’iniziale atteggiamento stupido di Maria che resta incredula, perché ancora vergine, incapace di far ex-sistĕre il Figlio dell’Uomo, segua il credo e la resa che la rende feconda.

Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto»

Luca, 1 – 38

È nel credere che esisto.

… DI ALTRE STORIE: IMMERSUS EMERGO

Tuffati! È qui che ti devi annegare

Meister Eckhart

Capita che per caso ti imbatti in un nome che è tutto un programma e che quel nome sia il nome di un profumo, una delle quattro creature di Federico Fumo, dottore farmacista e quarta generazione di una famiglia di alchimisti e farmacisti, docente di Scienze e Tecnologie Cosmetologiche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e fondatore della azienda Laboratori Effe. Non sai niente, l’azienda è giovane, ha poca storia alle spalle, il fondatore e naso è un docente universitario e la cosa ti sa tanto di “tecnica” da manuale di profumeria, per giunta un farmacista (oddio, sarà senz’anima!) ma con quel nome non lo si può lasciar perdere. La descrizione sul sito http://www.federicofumo.com è davvero seducente, parla di un profumo nato dall’esigenza di fissare l’attimo in cui l’idea si traduce in gesto, quasi a narrare una redenzione voluta, conquistata a fatica che emancipa dall’abisso, dalla melma in cui si sembrava soffocare. Potevo resistere? No.

Sulla touche il profumo si apre con il mandarino di cui conserva anche la nota amara, che si lega splendidamente con la liquirizia e la confonde un po’, bisogna annusare molte volte per riconoscerla e sembra quasi sostenuto, innalzato, direi, dal coriandolo, che dona una nota pungente ad enfatizzare la componente amara, il leitmotiv che caratterizza il profumo in modo discreto e pudico: non è una amarezza olfattiva, è una amarezza dell’anima, una melancolia, una tristezza nobile, mai disperata, contenuta e fiera. Le note muschiate, la vaniglia ed il benzoino non si palesano se non dopo un po’ di tempo e sembrano conservare impressa, come a volerla trattenere a terra, quando per sua natura tenderebbe a scappare, la nota piccante del coriandolo, che si fa però confusa, sembra diventare altro, come fosse una scintilla, una nota briosa che sembra ridare vita quando si è toccato il fondo olfattivo riportando alla memoria le note più alte.

Sulla mia pelle il profumo è un’epifania inaspettata: mi colpisce la dinamica tra le note, sembrano aggrapparsi l’una all’altra, come se nell’affondare e nello svanire, cercassero di riemergere, di ritornare fuori, prepotenti. Eppure nessuna riesce ad eccedere, nessuna prevarica, sembrano instaurare una coralità di voci distinte e distinguibili ma che acquistano un senso solo assieme. Un profumo che ha un carattere sofisticato eppure delicato, potente, eppure grazioso. Immersus, emergo. Un profumo che racconta chi si è immerso, trascinato dalla propria pesantezza sino a toccare il fondo e che dal fondo riemerge non per spinta, per reazione orgogliosa e sprezzante ma per esaurimento, per consunzione del proprio peso. Sembra suggerire la resa, l’annegamento come unica via per riemergere, la tristezza dell’anima come risorsa, la nota amara come vincolo che inabissa ma spinge a risalire, senza che si debba fare null’altro se non vivere l’esperienza, immergervisi e annusare.

Profumo stupefacente, consigliato a chi non sta bene al mondo, a chi sente il peso del proprio esistere, a chi vuole indossare qualcosa di elegante e discreto, ma complesso, che richiede pazienza per essere compreso.

EPPURE…

Mondo di sofferenza:
eppure i ciliegi
sono in fiore.

kobayashi issa

Tutto quello che riesco a fare in questo incredibile silenzio è osservare. 

In verità, quando ci si ferma, come nell’āsana in statica, si amplificano le tensioni, emergono rumorosi i fastidi e l’inadeguatezza, vacilla l’equilibrio, il respiro si fa corto, pulsa il cuore rumoroso, i pensieri corrono veloci e li vedi scappare da cosa, chi lo sa? Verso dove? Mah. 

Śrī T. Kṛṣṇamāchārya consigliava una pratica dinamica prima dello stare in āsana, perchè ci si deve arrivare piano al silenzio, che per molti è frastuono insopportabile. Eppure tutto il senso della pratica sta nell’evento di starci, di rimanere immobili e lasciare che l’āsana si svolga: non si fa nulla, ci si lascia fare, si resta nell’istante, assente la volontà, lo scopo, il risultato, si è incapaci e l’āsana è solo una forma che si esprime, solo un accidente insignificante, apparentemente inutile, totalmente senza scopo e, nell’apparente inutilità, l’unica cosa che ci compete è l’ascolto.

Per me così è l’esistere, apparentemente un accidente inutile, totalmente gratuito, senza scopo, qualcosa che accade e che siamo chiamati ad esperire, a sentire, a vivere senza un perchè, senza un tornaconto, senza risultato. Come il gioco per i bambini, fatto per il gusto di giocare, che mai vuole arrivare da qualche parte e sempre è esattamente lì, dov’è.

Questo strano periodo, dove tutto è immobile, dove i riferimenti abituali svaniscono e ci si ritrova impediti da qualcosa che ci sovrasta, che rende il nostro ego impotente, la nostra volontà inefficace che fa rimbalzare ed amplificare bisogni, inadeguatezze, fragilità, disequilibri, tensioni è un āsana in statica che richiede ascolto, perchè nella statica, nell’immobilità e nel silenzio si sente amplificato solo ciò che è, non c’è niente di nuovo, solo che nella confusione e nel movimento non lo si percepiva, è un puro esistere.

L’esistere non conosce giusto o sbagliato, bene o male. L’esistere è. Quando ci si immerge, appaiono evidenti le strategie che abitualmente si mettono in atto per non ascoltare, non vedere: ci si schiera, si prende posizione, si parteggia per un ideale, si distingue l’odio dall’amore, si aderisce ad un immagine di sé, immagine utile quando ci si muove nel mondo, ma fardello nella statica. Fermarsi è un po’ morire, spaventa il frastuono interiore nel silenzio, turba l’assenza di categorie, il sentirsi niente. Eppure…

DEL NUTRIRSI E DI ALTRE STORIE

Più che mangiare, siamo mangiati dal cibo che ci impongono

E. GALEANO

Sono vegetariana da 30 anni, recentemente sono ritornata al mio primo amore, la macrobiotica. I principi della dieta macrobiotica sono semplici, Gianni, un caro amico che mi insegnò le basi trent’anni fa’, li riassumeva in questi semplici punti: il pasto deve essere composto da un cereale integrale, meglio in chicco, un legume (poco) e verdura di stagione. Quando fa freddo o si è deboli, tutto va cotto, anche la verdura e la frutta ed il metodo di cottura influenza l’energia del cibo e, di conseguenza, l’energia della persona. Ci sono poi alimenti da introdurre, come le alghe ed i fermentati, ed alimenti da eliminare ma per iniziare queste semplici regole sono sufficienti. Il mio pasto è semplice, quasi completamente senza sale, fatto salvo quello contenuto nel gomasio autoprodotto. Niente caffè, alcool non lo bevo da anni, niente dolci, frutta solo al mattino. Il pasto è essenziale, mangio solo se ho fame, mangio per nutrirmi provando a coltivare una sensibilità che rispetti sia il cibo che me stessa, il mio corpo.

Siamo culturalmente condizionati a considerare la rinuncia come un disvalore, una mancanza, un furto. L’idea di rinunciare al “piacere” del cibo viene associata ad una sorta di tendenza autolesionistica, spesso ideologica e fanatica. Chi pensa a nutrirsi invece che a mangiare cose “buone” viene guardato con sospetto, se gli va bene, o considerato un ortoressico, se gli va meno bene. Ma cos’è questo “piacere”? Siamo immersi nella pornografia sensoriale, condizionati da ciò che ci dicono sia buono, abituati ad ingurgitare zucchero, sale, sapori forti, complessi, carne, sapori pesanti, marcati, spesso combinati (quel vino con quel cibo… no, ragazzi… no…) siamo drogati e dipendenti. Non mi credete? State senza zucchero (senza NESSUN zucchero), o senza caffè per qualche giorno e sentite il nervosismo che avanza. E cos’è “buono”? Buono un cibo che ci metto ore a digerirlo? Buono l’alcool? Ho una struttura psichica che tende a ridurre al necessario tutto ciò che mi anima. Barcollo tra infinite informazioni, leggo libri, elaboro pensieri ma sento poi la necessità di scremare ed arrivare ad una sorta di minimalismo, spesso fortemente connotato esteticamente. Così sono ritornata ancora al cibo antico. E qui la rinuncia si è rivelata una conquista: il minimalismo dei piatti una scoperta, anche a livello energetico, che davvero non mi aspettavo. Il cibo è qualcosa di nobile ed è una delle fonti di nutrimento: l’aria è la prima fonte, l’acqua la seconda. Il cibo viene per terzo: puoi stare senza respirare qualche minuto, senza bere qualche giorno, senza mangiare 40 giorni. E poi, anzi prima, viene la qualità: non è bene respirare aria inquinata, i cui parametri chimici siano alterati, stesso discorso per l’acqua, sul cibo invece poniamo scarsa attenzione e mangiamo abitualmente cose che non ci nutrono, al massimo ci saziano o ottundono i nostri sensi. Non è un cavillo, una distinzione inutile: il corpo ha la necessità di essere nutrito, non ottuso, non saziato. Il cibo ha sapori propri, una mela, un pugno di riso o di miglio sono di per sè complessi e schiudono infiniti sapori come le note di un profumo: ci vuole un naso preparato e sensibile per comprendere un profumo di nicchia e ci vuole un palato allenato e sensibile per scoprire le sfumature del riso integrale, gli amidi che si trasformano mescolandosi alla saliva, che cambiano sapore, che entrano in circolo prima di arrivare nell’intestino. C’è una semplicità che è invero complessa e troppo raffinata per essere compresa se mangi cose “normali”. C’è un rumore mostruoso nei piatti degli chef, nella cucina elaborata, dove l’enfasi sovrasta la materia prima e la snatura e c’è un incredibile silenzio nelle verdure al vapore senza sale. Si tratte, per me, di andare a fondo, io che già da 30 anni non mangio “normalmente” e mi nutro in modo molto semplice. Scremare ancora, raffinare e nutrirsi come non facevo da tantissimo tempo. Andare a fondo, allenare l’attenzione al dettaglio, allenare l’ascolto, restare attenta e presente all’azione del nutrirsi. La mia tendenza a ridurre è diventata una cosa buona.

Qualcuno mi disse “tu distruggi tutto, perchè vuoi vedere cosa resta in piedi, devasti, sei la morte e vuoi vedere cosa sopravvive”. Non aveva sbagliato di molto. È difficile avere a che fare con qualcuno che si entusiasma per una ciotola di riso integrale stracotto.